Sarebbe bene che il PD evitasse certe scene. Da entrambe le parti. In gioco non c’è né la continuità del governo, né la sopravvivenza della democrazia. Il riferimento è la guerra che, tra Mose e “gruppo dei dissidenti”, è scoppiata dentro il Pd. Guerra politica che come tale va giudicata. Le due parti sono, ormai, “quelli pro” e “quelli contro” Renzi.
I fatti scatenanti sono noti: da un lato il braccio di ferro su Orsoni conclusosi con le sue dimissioni da sindaco di Venezia e l’addio alla politica; dall’altro, l’epurazione dei senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali, cosa che ha indotto altri 12 parlamentari a costituire una pattuglia di dissidenti. In entrambi i casi ci sono torti e ragioni che vanno ben al di là dello schema “pro-contro” segretario del partito e presidente del Consiglio. Partendo da Venezia. Pur non entrando nel merito della posizione giudiziaria di Orsoni, dal punto di vista politico, però, l'aspettativa è che di quei quattrini che sono andati a finanziare la sua campagna elettorale, il Pd, che lo ha candidato, se ne assumesse la responsabilità in solido. Invece Renzi, che aveva salvaguardato due sottosegretari raggiunti da avvisi di garanzia, lo ha scaricato subito, senza neppure considerare che sarebbe stato difficile attribuire la patente di “vecchio politico da rottamare” ad uno pescato nella società civile e fino a poco prima portato in palmo di mano da tutti, renziani in testa. D’altra parte, pure Cacciari è caduto nella trappola di dare i (brutti) voti a tutti e ritrovarsi a dover giustificare le sue richieste ai generosi dirigenti del vecchio CVN. Ma si sa, l’ipocrisia è il tratto della politica italiana e pare voglia continuare ad esserlo anche in questa fase di transizione, in cui è finita la Seconda Repubblica ma non è ancora iniziata la Terza.
Quanto ai dissidenti, è evidente che la loro è una sfida ai nuovi assetti interni al Pd. Ma la risposta è stata del tutto sbagliata. Non si può considerare la presenza in una commissione parlamentare alla stessa stregua di un incarico di partito, non si può sollevare d’imperio chi trova sancito nella Costituzione il proprio diritto ad agire in piena libertà rispetto alle indicazioni del suo partito. Peraltro, sarebbe bastata l’autorevolezza della presidenza del Senato a impedire questo madornale errore. Inoltre, le obiezioni sollevate sulla riforma del Senato sono fondate anche se è palese che molti dei dissidenti sono animati solo da quello spirito di conservazione costituzionale.
Renzi, a suo tempo, aveva davanti a sé due opzioni: uscire dal Pd per fare lui quel partito né di destra né di sinistra che doveva unire moderati e riformisti per mettere fine al fallimentare bipolarismo italico e governare pragmaticamente il paese, per due decenni paralizzato dalla contrapposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani; rimanere dentro il Pd e provare a conquistare una fetta dei voti moderati nonostante il retaggio del passato. Renzi ha scelto la seconda. Finora i fatti gli hanno dato ragione: segreteria del partito, palazzo Chigi, 41% dei voti alle europee. Ma proprio per questo Renzi non può e non deve evitare di farsi carico del veicolo attraverso il quale ha scelto di conquistare il potere. Non si tratta di prendersi responsabilità non sue, né tantomeno precludersi la possibilità di cambiare il Pd da cima a fondo, nei valori, nei programmi, negli uomini. Ma tutto questo non si può fare tirando una riga, di qua i renziani – quali, poi, quelli della prima ora o anche quelli dell’ultima? – e di là i cattivi. E neppure facendo finta che uomini, strutture e soldi che erano e sono rimasti dentro il Pd, e anche attraverso i quali ha potuto vincere le elezioni, non esistano solo perché preesistenti. Ora far finta che il Pd sia suo, o che lo debba diventare per effetto del voto di maggio, è non soltanto una forzatura, ma un grave errore politico.
Addì, 14 giugno 2014